Autore : redazione - ven 02 febbraio 2018 - Argomento : Cronaca
Il gioco di Gardo
Edgardo Casotti Garduccio
Negli ultimi tempi incontravo Gardo nelle sue boccate d'aria quotidiane, guadagnate con la scusa di buttare il rusco. Gli anni si facevano sentire, come è nella natura delle cose, ma la battuta era lì, pronta e leggera. Come sempre.

Edgardo Casotti, detto Garduccio (o ancor più in breve "Gardo" per i vezzanesi di lungo corso), è stato un punto di riferimento per una comunità. La nostra.

Comunità, parola sempre più in disarmo, accantonata spesso in qualche angolo polveroso da vite troppe frenetiche, impegnate e solitarie.

Uomo di sport, uomo di calcio. Entrambi intesi però come una faccenda di squadra e di collettivo, lontano anni luce dalle tentazioni di vane glorie declinate al singolare.

Gioca, lotta, vinci, perdi. Insieme. E se te la vedi brutta: spàrecia.
E' solo un gioco, ma che gran bel gioco.

Garduccio era essenziale, nel calcio e nelle parole.

Molte volte ho guardato, per questioni d'affetto, quella foto d'altri tempi in bianco e nero. Era il 1958, sessantanni fa e molte vite fa, in dal camp dal prêt.

Lì in basso c'era mio padre e là sopra Gardo con la fascia da capitano, come quasi sempre gli capitava.

Divisa senza tanti fronzoli, pallone tenuto insieme dalle molte cuciture, l'erba una pura opzione.

Oggi ad una squadra così non daresti un centesimo di speranze, eppure m'han sempre raccontato, vecchi compagni e tignosi avversari, di quanto fossero forti e di quanto Gardo fosse il più forte.

Oggi il calcio è un'altra cosa, perchè probabilmente tutto quello che c'è intorno è un'altra cosa. Anche la nostra comunità.

Gioca, lotta, vinci, perdi. Insieme. E se te la vedi brutta: spàrecia.

E tutto lì, l'essenziale.

Perché è' solo un gioco, ma che gran bel gioco.


Un po' di foto di Gardo le trovate qui sempre con un pallone tra i piedi.