| Dolce come la pietra. "Dolsura" è un parola antica che ha percorso molte strade, in tante forme, in tempi ed accenti diversi. C'è la "dulzura" spagnola e la "dolciura" di Giovanni Pascoli. Dolsura, in dialetto reggiano, finì poi addosso anche a Carlo che era ancora un bambino. Ci pensò suo zio, a cui pareva una parola proprio adatta a lui. Con i soprannomi nelle piccole comunità succede così: tutto nasce in un battito ma rimane per sempre. Carlo Bertolotti, per quasi tutti qui intorno "Dolce", è morto questa notte dopo un viaggio lungo quasi 92 anni. Un viaggio che ha avuto un epicentro solido e costante: la casa ed i campi dove Carlo è nato, vissuto e dove ha messo in opera tutta la sua originalità. Oh sì perché Carlo l'era originel, che è termine che usiamo per definire quello che non sappiamo ben decifrare, con un misto di affetto, ironia e stupore. Era originale anche la casa che si era costruito, come sempre, tutto da solo. Una casa che sembrava uscita da un episodio de "Alla conquista del West" (e un po' quell'aria da "zio Zeb" Carlo ce l'aveva se non fosse stato asciutto come un chiodo). Una casa tutta tronchi di legno da foresta del Wyoming ed invece era solo cemento sulla salita del Monte del Gesso. Dentro e fuori quei muri tirati su con fatica ed ingegno c'erano molte delle opere da autore naïf : quadri, sculture, mosaici. Le creava nella vecchia casa materna dall'altra parte della strada. Una casa che Carlo aveva rifatto tutta completamente in sasso e adattata a laboratorio. E anche la strada in mezzo aveva rifatto a suo modo. Sassi, pietre e terra erano lo strumento con cui Carlo, prima come muratore ed artigiano ed infine come artista, dava forma al proprio mondo ed ai propri pensieri. Un groviglio di pensieri difficile da seguire per filo e per segno per chi lo stava ad ascoltare. Dopo l'incipit "c'me andom Carlo ?" lui ti portava nel profondo del suo mondo fatto di cose semplici: amore per la natura, il mistero della fede, la passione del lavoro manuale. Aveva con questi elementi un rapporto sincero e primordiale. Li amalgamava insieme e ne tirava fuori un qualcosa di misterioso ma compiuto, una chiave di lettura, un senso da dare alla vita. La sua. Firmava le sue opere con una scaletta con tre o quattro pioli. "E' il simbolo del lavoro e del progresso dell'uomo, quello da fare giorno per giorno. Il mio nome non conta, importa quello che resta" disse una volta in una di quelle rare interviste ai quotidiani locali. E di "Dolce" non restano solo i quadri o le sculture ma anche segni tangibili nel panorama di molti. Negli anni sessanta ristrutturò il campanile della chiesa di Vezzano in un'opera preziosa, matta e solitaria che molte imprese pare avessero rifiutato di effettuare. A guardare le foto oggi, vengono le vertigini. Sempre in solitudine ha messo mano, con fatica ed ingegno, al recupero di due antiche pievi delle nostre colline: la chiesa di Castello di Querciola e quella vicina di San Pietro, drizzando pure il campanile. Infine, quando aveva già superato i settanta, si mise davanti ad un mucchio di sassi sopra una collina. Quel mucchio di sassi era conosciuto un tempo come la chiesuola o chiesolina. Stavano lì quei sassi, dimenticati dai più, dal 1200. Carlo riportò a nuova vita quell'angolo di mondo, pietra su pietra. Letteralmente. Quando fu il momento di finire e metterci il tetto, lo fermarono. Ci volevano le carte bollate, una firma, e la scaletta con tre o quattro pioli non bastava. Lui chiosò: "mille anni fa quando la costruirono non ci voleva la firma" e tornò a casa. Andateci lì alla chiesolina di Tabiano se vi capita. Aveva un originale rapporto con il tempo della vita Carlo. Tendeva a rifiutarne i canoni con leggerezza e ad ignorarne i limiti con consapevolezza. Inseriva il singolo tempo che ci è dato, dentro un orizzonte molto più ampio, quasi percepisse nel groviglio dei suoi pensieri il ritmo paziente dell'universo e del Creato. "Una volta la settimana vado a ballare in discoteca e poi torno a casa (il marabù e una danzatrice sono tra le sue sculture più imponenti). Non mi riconosco con l'anagrafe. Non ho conosciuto la gioventù, non conosco la vecchiaia. Amo la vita. Sono appena andato a potare tre piante da un contadino, ho finito la facciata della chiesa di Tabiano, sto realizzando finiture intorno a casa. Ho l'orto, alberi da frutto, un po' di vigna, sei biolche di terra dove ho piantato quaranta ciliegi e cento piante di noci. Pensa tra vent'anni che ricchezza". Dopo quasi 92 anni l'originale viaggio di Carlo "Dolce" Bertolotti è finito. E' finito per ricominciare dentro il ritmo paziente dell'universo e del Creato. Niente più pioli di scale da salire. Polvere alla polvere, credo ripeterebbe per l'ultima volta lui. |

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